La chiesa
della Santissima Annuziata - chiesa dei greci - della dott.ssa Luigina
Aiello
PREFAZIONE
Questo contributo nasce come conseguenza del fenomeno, a cui si assiste
a Livorno, di riscoperta delle tradizioni storiche. La scelta della chiesa della S.S. Annunziata (dei Greci Uniti) è
stata determinata da un duplice ordine di motivi: per la particolare importanza
storica, culturale ed affettiva che riveste questa comunità all’interno della
storia livornese e per la recente riscoperta del valore iconografico da parte
del grande pubblico, a livello internazionale, di cui non secondaria
testimonianza risulta essere l’invito fatto dal Concilio Vaticano II di
“conoscere, venerare, conservare il ricchissimo patrimonio liturgico e
spirituale degli Orientali” (decreto sull’ecumenismo n°15 U.R.)
Vuol quindi essere un modesto contributo che mira a riportare l’icona
alla dimensione storica, teologica, artistica della comunità a cui tale
espressione appartiene, per ricondurla alla grande tradizione di verità e
bellezza, segno di quella luce interiore che nasce dall’illuminazione del Verbo
dove l’arte (nella tecnica e nell’estetica) supera i suoi limiti e palesa la
realtà a cui l’umanità aspira, aprendosi ad un incontro con la Teologia.
ARTE E ARCHITETTURA DELLA CHIESA
Nel 1605 terminò l’edificazione della Chiesa della S.S. Annunziata, dopo
5 anni fu aperta al culto, ma quantunque ultimata mancava ancora della facciata, del campanile e di
ornamenti e pitture che la arricchirono negli anni successivi.
Nel 1607, forse su disegno dell’architetto della Fabbrica Livornese A.
Pieroni si diede inizio ai lavori della
facciata che furono portati a termine con gli oboli versati dai nazionali.
La chiesa si presentava a navata unica, con il soffitto a capriate a
vista, dotata, nelle pareti laterali, in alto, di otto finestre rettangolari.
Risultava inizialmente così sobria ed austera da essere definita come un
“capitolo di monaci” (De Brosse). Questo rigore fu superato nel tempo con la
scelta dell’arredo e con i lavori di abbellimento.
Il portale venne eseguito per interessamento del curato Timoteo di Cipro
nel 1638 ed oggi è possibile ammirarlo presso Villa Sproni a Salviano
(Livorno). Si presenta a due battenti intagliati, su uno dei quali è riportata
in greco la data ed il nome del curato. Il bema terminava in un’ abside
semicircolare rialzata, nascosta dal templon in muratura. La costruzione del
templon è contemporanea alle altri parti dell’edificio, ma è, secondo il parere
di Dell’Agata Popola “in palese
discordanza con lo spazio presbiteriale concepito dall’architetto: il grosso
arcone dell’innesto absidale la sovrasta creando un inutile e disorganico
sdoppiamento”. Tale discordanza è probabilmente da attribuirsi alla scarsa
dimestichezza con l’architettura bizantina. La tradizione greca ci informa che
nel 1708 fu completato, ad opera del Cav. Baratta di Carrara, l’arricchimento
della facciata con marmi, colonne, pilastri dorici a sostegno di due statue
sedute (l’Innocenza e la Mansuetudine), stemma mediceo e bassorilievo
raffigurante l’Annunciazione della Vergine. Nello stesso anno fu abbattuto
anche il campanile e ne fu innalzato un nuovo da Pietro Giovannozzi da
Settignano. Nell’anno successivo vi fu collocata la campana maggiore del peso
di duemiladuecento libbre, fusa da Ambrogio Mignoni. L’atrio della chiesa era
caratterizzato da una cupola dove erano rappresentati 4 evangesti e i Santi
Nicolò e Atanasio, nella parete di fronte. Nel 1857 fu posta una lapide in
ricordo della visita del pontefice Pio XI. L’interno
della chiesa possedeva “bellissimi stalli di noce artisticamente
lavorati” posti a destra e a sinistra; davanti vi era un cancellato di legno
“oltrepassato il quale…….” vi era “una paratia o transetto di legno ma ricco di
intagli, pitture, ori e argenti” (G. Scialhub). In fondo alla chiesa stava e
sta il gineceo, luogo da cui le donne assistevano al culto. La costruzione
risale al 1697 e la doratura è stata eseguita da Giuseppe Calocchieri, Pietro
Formigli e Antonio Marticini contemporaneamente a quella dell’iconostasion e
del soffitto nel 1750. Nello stesso anno è stata posta al centro del soffitto
la pittura dell’Annunciazione opera di Giovanni Ferretti. Dietro l’iconostasion
stava il santuario con al centro un altare che “consisteva in una mensa di
forma quadrangolare sopra la quale posavano quattro colonne che sostenevano
quattro angioli quali a loro volta reggevano una graziosa cupoletta indorata
nell’esterno seminata di stelle simboleggianti l’azzurra volta del cielo. La
sormontava una croce a piede alla quale era attaccata una catena d’argento che
veniva giù in mezzo all’altare per sostenere una colomba di legno dorato che
racchiudeva il S.S. Sacramento. Il tutto per rappresentare la forma dell’arca dell’Alleanza
ove si conservava la Manna simbolo del Corpo di Nostro Signore Gesù Cristo” (G.
Scialhub) Nel 1796 quest’altare aveva bisogno di restauri e i Greci, seguendo
la moda del tempo, lo sostituirono con un altare alla romana. Ai lati
dell’altare maggiore vi erano due altarini: quello a destra (dono di Ignazio
Scodelli) si chiamava protesis (proposizione), in quanto si svolgeva la prima
parte del sacrificio e l’altro a sinistra (dono dei fratelli Curti) si chiamava
diaconicon, in questo il celebrante si vestiva (G.Scialhub) Questa tradizione
da G. Scialhub è fatta risalire
all’Editto di Costantino che proclamò il cristianesimo religione di stato e
provocò la conversione delle basiliche e templi pagani. Questi possedevano due
celle poste ai due lati dell’abside che servivano come archivi, successivamente
convertiti in protesis e diaconicon. L’iconostasi all’interno
dell’architettura, costituisce “l’elemento maggiormente distintivo
dell’apparato scenografico funzionale alla liturgia bizantina riassumendo due
dei punti fondamentali della teologia
di matrice ortodossa:il culto delle immagini e la celebrazione del Mistero
divino” (M. Lombardi), in quanto l’icona è la rappresentazione autentica di
Cristo, di Maria, dei Santi da cui “conditio sine qua non” sta nel dogma
fondamentale del cristianesimo: l’incarnazione di Dio.
“l’icona consente la contemplazione divina per mezzo delle immagini
sensibili, umanizzate appunto, ma ad un tempo, la stasi iconografica che vede
il protrarsi nei secoli dei topoi ieratici, fissi nei loro atteggiamenti,
astratti nelle loro fisionomie, lascia trasparire da tale antropomorfismo
qualcosa di soprannaturale e di etereo”(M. Lombardi).
L’iconostasi , quindi, è lo stimolo alla contemplazione che avvicina
l’uomo a Dio; qui i Santi divengono intercessori dell’uomo introducendolo
emotivamente al Mistero Divino. La sua collocazione separa la zona destinata ai
fedeli da quella dell’officiazione, quasi a sottolineare la provenienza divina
delle parole mistiche. L’iconostasi, inizialmente presente sotto forma di
divisorio in muratura, risale al 1641, il dodekaorton
di questa posto sull’ epistilio, fu realizzato ad opera di uno schiavo che si
trovava nei bagni di Livorno. Questo settore risulta essere “prodotto di una
tarda lettura popolare e semplificata di modelli riconducibili alla produzione
del Monte Athos”. Qualche anno più
tardi le altre icone dell’iconostasi, collocate sotto il dodekaorton furono
rivestite in argento. Queste raffiguravano a destra di chi entrava, il Pantocrator, in atto
benedicente (di Anthimos Kolas di Zante); San Spiridione (taumaturgo
dell’oriente); San Jacopo (in ricordo della prima Chiesa appartenuta ai Greci
oppure “una prova all’interno di un progetto rimasto inattuato, come ipotizza
Dell’Agata Popova, tale icona può
essere attribuita per motivi stilistici ad Anthimos Kolas di Zante; a sinistra
la Madonna delle Grazie
(Odighitria) dello stesso Anthimos; San Niccolò di Bari; San Giorgio
in atto di uccidere il drago.
Il Pantocrator è stato rivestito in argento nel 1666 dall’orefice
Giorgio di Santa Maura, l’Odighitria (colei che indica la via) nel 1784 da
Luigi Dupont con il lascito del greco Tagliamare, l’icona di San Giorgio e il
drago nel 1789 da Domenico Olivero per grazia ricevuta dalla signora Sofia
Baschi (G. Scialhub).
L’iconostasion ha tre porte che furono dipinte da Agostino Wanonbrachen
nel 1751: quella centrale si chiama regia, vi erano, e vi sono, dipinte la S.S.
Annunziata e i 4 santi dottori Basilio, Gregorio il Teologo, Giovanni
Crisostomo e Atanasio. Nella porta di destra sono rappresentate la nascita di
Gesù Cristo e quattro apostoli e sopra, nella lunetta, le sante Atanasia e
Lucia, quest’ultima opera è l’unica che non ci è pervenuta. Nella porta di sinistra sono rappresentate l’
adorazione dei pastori, altri 4 apostoli e sopra Atanasio, Cosimo e Damiano.
Questi dipinti sono opera del maestro Agostino Wanonbrachen (questo autore
viene chiamato così da Volpi, Ulacacci, e Scialhub; il Piombanti invece lo
chiama Wanderbrach; il Fokker Houbrachen; il Thieme-Becher Houbraker o Von
Houbraker o Von Houbraken o Vanderbrach; la Sovrintendenza di Pisa parla di
Niccola Van der Brack).
Sotto l’immagine del Pantocrator si vedono in piccolo quelle dei santi Marco, Luca, Pietro,
Paolo, Matteo e Giovanni. Sotto l’immagine della Madonna col Bambino vi sono
dipinti dei profeti
– Geremia, Isaia, Ezechiele, Michea, Daniele e il Santo Re David – ciascuno dei
quali ha in mano una profezia riguardante la Vergine (Geremia 3,17: “Vocabunt
Jerusalem solium Domini, et congregabuntur ad eam omnes gentes”; Isaia 7,14:
“Ecce virgo habebit in utero et pariet filium, et vocabunt nomen eius Emmanel”;
Ezechiele 44,2: “Porta haec clausa
erit, non aperietur, et vir non transivit per eam; quoniam Dominus
ingressus est per eam”; Michea 5,2: “Ex te mihi egredietur qui sit dominator in
Israel”; Daniele 2,34: “Donec abscissus est lapis de monte sine manibus”; Salmo
34,10: “Audi, filia, et vide et inclina aurem tuam, et obliviscere populum tuum
et domum patris tui”).
Queste opere e quelle raffiguranti Giovanni, la
Madonna, Pietro e Paolo che coronano il Crocifisso al centro dell’iconostasi,
sono tutte di stile bizantino. All’interno della struttura
dell’iconostasi ogni componente ha un suo valore ed è indispensabile. La
Marilena Lombardi fa notare infatti come la linea mediana,……., costituita dalla
porta aurea, dalla lunetta che la sovrasta, raffigurante l’Annunciazione, al
Crocifisso crea un concatenamento analogico: la porta aurea è la porta
d’accesso al luogo della celebrazione dell’incarnazione di Cristo per la nostra
salvezza. G. Scialhub ci mette al corrente che oltre alle icone e ai dipinti
finora elencati ve ne erano altri “di pregio non comune”: una Vergine Madre col
Bambino del quattrocento di cui si mette in evidenza l’acconciatura Leonardina
e il colorito di stile botticelliano; un altro dipinto della Madonna del XIII
secolo; un quadro di San Michele Arcangelo di epoca bizantina, pregevole per
l’antichità e per la cornice artistica; un quadro di S. Atanasio con due
angioletti, che pur essendo di epoca più recente degli altri, Scialhub dice
riecheggiante i toni bizantini e avere una pregevolissima e antica cornice; un
quadro di S.Giorgio; un grande quadro raffigurante S.Anna con la Santa Bambina
non anteriore al settecento. Nella sacrestia si trovano dipinti su legno e su
tela e legno dell’epoca bizantina o di imitazione di tale epoca. Tra questo
gruppo di dipinti vengono menzionati un S .Giovanni
Battista con le ali, di scuola greca, che secondo l’autore ricorda
gli affreschi dell’Orgagna, ritrae il Santo riproponendo l’espressione biblica
“Ecce ego mittam angelum meum” (Malachia, 3), tale icona salvatasi dagli eventi
bellici, può essere ancora oggi ammirata sulla parte destra della navata.
Inoltre un crocifisso su legno con fondo nero, un Redentore in trono
vestito come un imperatore dell’oriente e una Madonna col Bambino. Le tre icone
legate al nome di Anthimos Kolas di Zante, secondo quanto sostiene la
Dell’Agata Popova nel suo studio,
probabilmente sono state ordinate, ma non necessariamente eseguite a Livorno,
presentano caratteristiche tecniche e stilistiche diverse da quelle della
scuola cretese a cui inizialmente erano state attribuite. La differenza si
determina, attraverso un confronto con icone cretesi, conservate nel museo
civico di Livorno, nella diversa tipologia caratterizzata dall’immagine robusta
col collo corto e possente, dalla carnagione chiara e dal drappeggio che
conferiscono un carattere colto all’immagine, in contrasto con quello più
semplice delle tavole del dodekaorton. Tale stereotipo iconografico trova
precedenti nella tradizione macedone che sopravvive nel periodo post-bizantino
e sembra condizionare anche alcune opere di maestri cretesi del secolo XVI come
Pavias, Eufrosimos, Damaskinos. Forse è con queste opere che si è confrontato
Anthimos Kolas di Zante, secondo quanto ipotizza la su citata Dell’Agata
Popova.
L’iconostasi, tra il 1640 e il 1643, ha subito altri due interventi, a
cui abbiamo già accennato, ma su cui vorremo dilungarci ulteriormente.
Nel 1640 Costantino Argiropulo “in partenza per Candia viene
incaricato….. di far intagliare una croce, quattro delfini e quattro icone a
Creta…” (D’A. Popova) e le cornici delle icone raffiguranti i
Piangenti di produzione cretese con influssi occidentali tardo gotici, dovrà
inoltre condurre con sé un pittore per dipingere la croce a Livorno ed
eventualmente dipingere la Chiesa. Creta aveva un ruolo importante nella
pittura, nella scultura in marmo e in legno che risultavano già influenzate
dall’apporto tardo-gotico e rinascimentale occidentale. A Creta Argiropulo
contatta Thomas Bentos (Frabenetos) di Retimo, ma residente da tempo a Candia.
Il coronamento ordinato subì un ritardo nella consegna che avvenne nel dicembre
del 1643 (Archivio di Stato di Venezia). L’opera, consistente in una grande Croce con cornice
intagliata, 4 delfini e 4 edicole, “risulta di fondamentale
importanza per la conoscenza della personalità dello scultore, essendo l’unica
opera di sicura paternità da noi attualmente conosciuta” (D’A.Popova).
L’eccellenza dell’intaglio giustifica l’entusiasmo dei contemporanei. Le
quattro edicole vengono comparate alle nicchie dei monumenti sepolcrali, di cui
troviamo un esempio nelle tombe di Nicolò Tron e Pietro Mocenigo in Venezia.
Nella parte pittorica del coronamento si può rilevare un omaggio all’arte
occidentale offertaci dalla scrittura anatomica del Cristo, dalla postura delle
figure ai lati (decise da un ignoto forse di origine greca) (Cfr. M. Lombardi).
Il dodekaorton, come già detto, è stato realizzato da uno schiavo del Bagno,
perché forse ignote circostanze hanno impedito l’intervento del pittore
desiderato. Così si presentava la Chiesa fino alla distruzione risalente alla
seconda guerra mondiale.
Successivamente, dopo il passaggio di proprietà all’Arciconfraternita
della Purificazione fu restaurata e riaperta al culto il 2 febbraio 1970.
Riportiamo di seguito i profondi cambiamenti che la Chiesa presenta. Nella
facciata tutto è rimasto grossomodo
invariato, essendo l’unica parte della Chiesa non colpita dai bombardamenti,
mancano solo due statue (la Mansuetudine e l’Innocenza) che sono depositate
alla Sovrintendenza di Pisa in attesa di essere ricollocate ai lati del timpano
spezzato. L’atrio non presenta più il dipinto al soffitto, rappresentante una
cupola con gli Evangelisti, ne gli affreschi di S. Nicola e S. Atanasio nella
parete di faccia. Ha perso “tutto l’inganno prospettico….. delle finte
architetture” (F. Dal Canto) che mirava
a creare spazio nella stretta struttura della Chiesa. Il soffitto dell’unica
navata è stato completamente ricostruito,
riprendendo il disegno originario da una piccola parte dello stesso, sopra
l’ingresso, che sembra si sia salvata, o come vuole il popolo, da una
fotografia scattata da un militare americano prima della distruzione. Il
dipinto, la Presentazione di Gesù al Tempio o Purificazione, appartenente alla
distrutta Chiesa dell’Arciconfraternita dove era collocato nell’altare
maggiore, viene inserito nella parete di sinistra. Quest’opera è attribuita a
Giuseppe Terreni, pittore livornese della seconda metà del settecento. L’iconostasi ha perso gli arricchimenti e le
decorazioni, rimanendo una sobria paratia in legno che a fatica riecheggia
nell’estetica, il ricco stile orientale; fortunatamente quasi tutte le icone di
questa si sono salvate e sono state custodite dalla Sovrintendenza fino alla
riapertura al culto. E’ scomparsa, inoltre, un’opera attribuita a A.
Wanonbrachen; il dipinto che aveva per soggetto le Sante Lucia e Atanasia. In
conseguenza al crollo del soffitto per i bombardamenti scomparve anche la tela
ad olio della S.S. Annunziata collocata sullo stesso, questa era opera di Giovanni
Domenico Ferretti chiamato l’Imola, dal suo luogo d’origine, pittore del
settecento, famoso nell’ambiente delle ricche famiglie fiorentine. Risultò
essere allievo di Francesco Chiusuri, di Tommaso Redi, di Sebastiano Galeotti,
di Felice Torelli e arricchì l’arte fiorentina con gli influssi di Gioseffo del
sole ( Cfr: F. Dal Canto). Non possiamo più ammirare né la probabile tempera su
tavola di scuola fiorentina del quattrocento, rappresentante la Madonna col
Bambino di cui G. Scialhub ci parla in toni entusiasti, né la Madonna col
Bambino di scuola greca, collocata nella sacrestia della Chiesa, sicuramente
precedente al seicento, perché già esposta nella Chiesa di Sant’Jacopo, quando
questa iniziò ad essere officiata dai Greci.
Tale icona nel 1828 fu regalata al parroco della Parrocchia S. Pietro e
Paolo, che la cedette a Michele Tonci, che a sua volta la espose nella chiesa
della Sambuca, un eremo oggi in parziale ristrutturazione. E’ da
segnalare,comunque, la presenza di un’odighitria
sulla parete laterale sinistra che molto riecheggia lo stile orientale. Sono
inoltre scomparsi i dipinti di: S. Michele Arcangelo, Sant’Atanasio, S. Anna,
con la Santa Bambina, S. Giorgio, un crocifisso su legno con sfondo nero e il
Battesimo di Gesù: Di quest’ultima opera si hanno notizie nel testo
dell’Ulacacci: “Il dì della vigilia dell’Epifania…..
solevano i nostri innalzare una
macchina nel mezzo della navata, detta la capanna, formata da molte frasche ed
abbellita di fiori e frutta per la benedizione delle acque. Al governatore
Giovanni Curti sembrando questa macchina poco decente….. proponeva sostituirvi
un altare al tal uopo accomodato con un quadro rappresentante il Battesimo di
N.S. Gesù Cristo. Veniva applaudita la sua proposta nell’Epifania del 6 gennaio
1798 fu esposto il quadro e collocato in un altarino preparato apposta; il
pubblico fece infiniti elogi alla non ordinaria abilità del nostro concittadino
F.R. Terreni, nin meno che alla nostra nazione per il pensiero avuto di
collocare il detto quadro e togliere l’antica mostruosità della capanna,
accorrendo in gran folla ad osservarlo. IL gran dipinto del Terreni costò
zecchini 42 ed è una copia di Paolo Veronese. Oggi in pessimo stato per
ribollitura di tinte e per imperizia di chi ultimamente credè di restaurarlo”.
Nella parete laterale sinistra è stata collocata l’icona di sant’Jacopo, che
verso la metà del XIX sec., era posta presso la porticina che guarda il
diaconicon. Sotto il campanile era collocata la cappella di S. Atanasio,
affrescata da Giovanni Lapi, romano, nel 1764, con il Giudizio Universale e la
figura del Santo. Appartiene a tale artista anche l’Annunciazione del 1758.