LA
FUSIONE
FREDDA:
REALTA’
E
PROSPETTIVE
Una
valutazione
della
natura
e
delle
potenzialità
di
una
nuova
fonte
d’energia,
nucleare,
ma
pulita.
A
cura
del
Prof.
Emilio
Del
Giudice
Ricercatore
Sono trascorsi ormai 14 anni dal 23 Marzo 1989 quando due chimici, l’inglese Martin Fleischmann e l’americano Stanley Pons, annunciarono di aver realizzato con metodi elettrochimici la fusione di nuclei di deuterio con la conseguente produzione di rilevanti quantità di energia, molto maggiori di quelle prodotte da ordinarie reazioni chimiche. Esaminiamo brevemente i termini scientifici del problema.
La
fusione
dei
nuclei
può
avvenire
a
patto
di
sormontare
la
reciproca
repulsione
che
i
nuclei,
tutti
aventi
carica
elettrica
positiva,
esercitano
a
medie
e
lunghe
distanze,
mentre
a
corte
distanze,
le
forze
nucleari,
fortemente
attrattive,
prendono
il
sopravvento
e
rendono
possibile
l’interpenetrazione
dei
nuclei
reagenti
in
un
nucleo
più
grande,
somma
dei
due.
Tuttavia
il
bilancio
energetico
della
reazione
richiede
attenzione.
Per
i
nuclei
leggeri
l’energia
di
un
nucleo,
che
sia
la
somma
di
due
nuclei
più
piccoli,
è
minore
della
somma
delle
energie
dei
nuclei
componenti,
per
cui
i
nuclei
prodotti
dalla
fusione
debbono
rilasciare
un
eccesso
di
energia.
Nelle
condizioni
della
fisica
nucleare
ordinaria,
in
cui
i
nuclei
sono
particelle
indipendenti,
sia
reciprocamente
che
dall’ambiente
esterno,
che
si
muovono
in
uno
spazio
vuoto,
i
nuclei
“caldi”
prodotti
dalla
fusione
non
hanno
partner
con
cui
spartire
l’eccesso
di
energia
e
quindi
l’unica
possibilità
di
rilascio
di
energia
è
la
rottura
del
nucleo
“caldo”
in
frammenti,
la
cui
energia
cinetica
può
essere,
almeno
in
parte,
recuperata
per
eventuali
applicazioni
pratiche.
Prendendo
come
punto
di
partenza
i
nuclei
di
deuterio,
formati
ognuno
da
un
protone
e
un
neutrone,
la
fusione
dà
luogo
ad
un
nucleo
“caldo”
di
elio,
formato
da
due
protoni
e
due
neutroni,
che
si
spezza
in
un
tempo
brevissimo
potendo
emettere:
un
protone,
un
neutrone,
un
fotone
gamma.
Perché
la
fusione
avvenga,
alla
luce
di
quanto
già
detto,
è
necessario
che
i
nuclei
di
deuterio
abbiano
una
velocità
altissima,
come
quella
che
può
essere
acquisita
all’interno
di
un
ambiente
in
cui
vi
sia
una
temperatura
dell’ordine
di
varie
decine
di
milioni
di
gradi.
Si
ricordi
però
che
la
premessa
delle
deduzioni
precedenti
è
che
la
fusione
nucleare
avvenga
all’interno
di
insiemi
di
nuclei
“indipendenti”.
Il quadro descritto dai ricercatori che hanno indagato la fusione “fredda” è invece diverso. I nuclei di deuterio, estratti da un ambiente elettrolitico o gassoso, vanno a riempire una matrice metallica (di solito il palladio) e, quando la loro concentrazione all’interno del metallo eccede una soglia critica (che ha un valore piuttosto elevato), parte un processo nucleare che, mentre libera energia, produce elio 4 “freddo” in quantità commensurata all’energia prodotta; le quantità di trizio e di neutroni rivelate sono piccolissime, assolutamente non commensurate all’energia prodotta. Si deve perciò concludere che in questo nuovo tipo di fusione nucleare, che non avviene nello spazio vuoto, ma all’interno di un metallo, l’eccesso di energia prodotto dalla fusione è estratto dall’interno del nucleo “caldo” con una procedura molto veloce richiedente un tempo minore del tempo impiegato dalle forze nucleari a spezzare il nucleo che resta perciò intatto.
La
ricerca
condotta
in
questo
campo
in
cui
un
ruolo
preminente
è
stato
svolto
dallo
scomparso
fisico
italiano
Giuliano
Preparata,
ha
chiarito
che
all’interno
del
metallo
la
dinamica
degli
elettroni
del
palladio
è
tale
che
la
loro
struttura
collettiva
si
frappone
tra
i
nuclei
di
deuterio,
schermandone
la
repulsione
elettrostatica,
per
cui,
a
differenza
che
nello
spazio
vuoto,
i
nuclei
di
deuterio
possono
avvicinarsi
fino
a
distanze
a
cui
l’attrazione
nucleare
può
cominciare
a
giocare
un
ruolo.
Inoltre
i
nuclei
di
deuterio,
a
differenza
che
nel
vuoto,
interagiscono
tra
di
loro
e
con
gli
elettroni
del
palladio
attraverso
campi
elettromagnetici
capaci
di
estrarre
in
un
tempo
sufficientemente
breve
l’eccesso
di
energia
dai
nuclei
“caldi”
di
elio.
Queste
visioni
innovative
non
hanno
però
ancora
fatto
breccia
all’interno
della
maggioranza
degli
scienziati
e
degli
enti
di
ricerca
che
ne
disciplinano
l’attività.
Un
motivo
è
la
naturale
inerzia
degli
esperti
ad
accettare
mutamenti
del
quadro
concettuale
che
essi
hanno
imparato
a
padroneggiare
e
da
cui
traggono
prestigio
e
risorse.
Un
motivo
più
profondo
è
però
legato
al
mutamento
di
prospettiva
che
la
fusione
fredda
introduce
nella
considerazione
dei
problemi
dell’energia.
Il
punto
chiave
è
l’elevatissima
densità
di
potenza
prodotta,
dell’ordine
di
alcuni
kilowatt
per
centimetro
cubico
di
palladio.
Una
celletta
elettrolitica,
dal
volume
di
una
frazione
di
litro,
può
perciò
produrre
per
periodi
dell’ordine
dei
secoli,
alcuni
kilowatt,
cioè
l’equivalente
di
una
utenza
domestica
o
del
fabbisogno
di
un
utensile
elettromeccanico.
Viene
così
meno
la
necessità
di
megacentrali
e
delle
connesse
complesse
reti
di
distribuzione,
le
cui
insufficienze
sono
state
all’origine
dei
recenti
“blackout”
Di
fatto
la
centralizzazione
della
produzione
di
energia
in
grandi
centrali
è
imposta
appunto
dalla
bassa
densità
di
potenza
prodotta
in
tutte
le
fonti
d’energia
finora
utilizzabili.
Una
sorgente
“densa”
di
potenza
come
la
fusione
“fredda”
consente
invece
di
associare
ad
ogni
apparato
utilizzatore
la
sua
propria
sorgente
d’energia,
la
sua
“pila”,
consentendo
sia
architetture
produttive
non
più
vincolate
dalla
distanza
dalle
fonti
di
energia,
sia
enormi
risparmi
energetici.
Consideriamo,
a
titolo
d’esempio,
la
produzione
d’acqua
calda
in
una
casa.
La
richiesta
è
di
avere
a
disposizione
acqua
ad
una
temperatura
non
eccedente
40
gradi
sgorgante
da
alcuni
rubinetti,
a
partire
dall’acqua
fornita
dall’acquedotto
a
circa
15
gradi
in
media.
Il
fabbisogno
energetico
è
quindi
l’energia
necessaria
a
riscaldare
l’acqua
necessaria
da
15
a
40
gradi;
questo
sarebbe
vero
se
potessimo
produrre
miniriscaldatori
abbastanza
piccoli
e
poco
costosi
da
essere
applicati
ad
ogni
rubinetto.
La
presente
tecnologia
non
consente
questa
possibilità,
per
cui
il
riscaldamento
avviene
all’interno
di
scaldabagni
centralizzati,
da
cui
partono
i
tubi
che
alimentano
i
vari
rubinetti.
La
perdita
di
calore
durante
il
trasporto
impone
che
nello
scaldabagno
la
temperatura
dell’acqua
sia
portata
fino
a
70
gradi.
L’energia
necessaria
a
riscaldare
l’acqua
da
40
a
70
gradi
è
uno
“spreco”
motivato
dalla
bassa
densità
di
potenza
degli
attuali
riscaldatori,
che
potrebbe
essere
eliminato
da
una
sorgente
“densa”
come
la
fusione
fredda.
L’attuale
stato
della
ricerca,
ancorché
ignorato
o
negato
dagli
ambienti
scientifici
più
conservatori,
è
giunto
a
riconoscere
l’esistenza
e
alcune
caratteristiche
del
fenomeno.
E’
ancora
irrisolto
il
problema
fondamentale
per
le
applicazioni,
dell’efficiente
captazione
dell’energia
prodotta
e
della
realizzazione
di
unità
produttrici
di
dimensioni
adeguate,
cioè
in
cui
il
volume
“attivo”
della
matrice
metallica
sia
abbastanza
grande
per
applicazioni
interessanti.
Il
tempo
richiesto
per
la
soluzione
di
questi
problemi
non
può
essere
ora
valutato,
perché
dipende
dalle
risorse
–
ricercatori,
mezzi
e
finanziamenti
–
che
potranno
essere
destinate
senza
ostacoli
e
vincoli
a
questo
fine.